Miti e leggende, folclore e superstizione di una meravigliosa città, scaldata dal sole: Napoli.
Tutto questo e molto altro troviamo nel romanzo di Giuseppe Chiodi “Cuore di Tufo”
D: Ciao Giuseppe, benvenuto!
Parlaci un po’ di te.
R: Buongiorno a tutti!
Sono nato nel 1992, a Napoli. Nel 2009 termino il mio primo romanzo e seguo il corso di narrativa di AgenziaDuca.it, che accende il mio interesse per l’argomento. In seguito, conseguo un certificato C2 di Cambridge English e lavoricchio come traduttore freelance (inglese – italiano).
Continuo a scrivere. Seguo, nel 2016, il corso “Lavorare in Editoria” dell’agenzia letteraria Herzog e collaboro per alcuni mesi con la casa editrice Tullio Pironti di Napoli.
Apro il mio blog letterario, Immersività.
Nel frattempo, scrivo un gran numero di racconti e un nuovo romanzo, Cuore di Tufo, edito da Dark Zone edizioni.
D: Quando e come si è scatenata in te la voglia di scrivere?
R:La voglia di scrivere è nata quando ero solo un ragazzino.
Alcuni libri letti mi scossero profondamente.
Pensai che avrei voluto anch’io emozionare le persone in quel modo, che avrei voluto farle riflettere e aiutarle a cambiare la percezione delle cose. Insomma, cambiare le persone come certi libri cambiarono me. Scrissi il mio primo romanzo subito dopo il liceo e da allora non ho più smesso, anche se ho fatto pause e ho avuto ritmi altalenanti. Mi sono stabilizzato, comunque, negli ultimi due/tre anni
D: Da dove è nata l’idea che ti ha portato a scrivere “Cuore di Tufo”
R: L’idea di scrivere un romanzo che riprendesse le leggende popolari napoletane, le superstizioni e le figure del folklore, mi venne quando lessi alcuni romanzi che prendevano spunto dai miti locali. Capii che avrei potuto narrare anch’io qualcosa di originale, personale e, allo stesso tempo, “conosciuto” da chi e abita questo territorio, operando anche una valorizzazione di quest’ultimo.
D: all’interno del tuo romanzo c’è una tematica ricorrente: la sconfitta, ti va di approfondire questo argomento?
R: Certo! L’Ossessione della sconfitta è un tema molto importante all’interno di “Cuore di Tufo”
Pietro, il protagonista è un uomo che ha perso la sua battaglia con la vita. Ha una separazione in corso con la moglie, un’attività di famiglia che potrebbe chiudere e nessun amico su cui contare. Gli manca l’affetto di una donna, gli manca la stabilità di cui necessita. E questo l’ha fatto sprofondare ulteriormente in una vecchia fissazione: il soprannaturale.
Nell’occulto Pietro trova una scusa dietro cui ripararsi. Un feticcio che gli permetta di rifuggire la realtà e, allo stesso tempo, di sognare una realtà diversa. Ecco perché si affida alla superstizione per cambiare le sue sorti, che sia in amore o nell’ambito lavorativo. Pietro ha bisogno di uno scudo e di un aiuto esterno; non ha il coraggio di affrontare la vita perché crede di non farcela. Perché non ha fiducia in sé stesso.
Il suo è un contesto luttuoso, insoddisfacente, precario, solitario. Un contesto in cui fioriscono la depressione e il senso di inadeguatezza. Tutto ciò, però, è dovuto a un unico tratto, da cui dipendono gli altri. Il difetto fatale (Fatal flaw) intorno al quale ruota l’esistenza di Pietro è l’ossessione della sconfitta.
L’incapacità di accettare la sconfitta determina l’impossibilità, per Pietro, di voltare pagina. È il motivo per cui Pietro continua a pensare a sua moglie invece di guardarsi intorno. È il motivo per cui Pietro trascura sé stesso e ciò che ha fatto di buono in precedenza. La sua vista è obnubilata da quell’unico, devastante incidente, dal quale non riesce a rialzarsi.
Come superare l’ossessione della sconfitta? Come riacquistare la fiducia in sé stessi? Ecco, in Cuore di Tufo ho voluto dare la mia (personale) risposta a queste domande.
Per ritrovare la fiducia in noi stessi dobbiamo, chiaramente, smettere di pensare alla sconfitta. Smettere di vivere in una sconfitta perenne. E per farlo dobbiamo realizzare la nostra grandezza: ciò che abbiamo fatto e ciò che siamo. Perché tutti abbiamo fatto qualcosa di buono, anche a fronte di catastrofi.
Pietro ha messo al mondo Sonia, la cosa migliore che gli sia capitata.
È necessario capire, quando ci sentiamo smarriti, che non siamo soli. Non siamo semplicemente individui. Siamo parte di un tutto: famiglia, lingua, cultura, storia. Abbiamo insegnamenti ed esempi a noi vicini a cui possiamo fare appello; abbiamo opere grandiose, luoghi meravigliosi che ci parlano di una grandezza che ci appartiene. Abbiamo avi che hanno battezzato col loro sangue, per noi, la terra su cui camminiamo.
Gli strumenti per realizzarci sono tutti intorno a noi.
Non ci resta, quindi, che impugnarli. L’identità personale e collettiva ci consente di affermarci se ad essa aggiungiamo il coraggio delle nostre azioni. L’identità è il fondamento su cui costruire un solido futuro. Ciò che si è + ciò che si fa.
Ecco perché Pietro, che ha perso la fiducia in sé stesso, riesce a riscattarsi non solo tramite gli antenati e gli insegnamenti della famiglia, ma anche grazie alle sue gesta passate e al sangue che versa in quest’avventura.
A me non resta che ringraziare Giuseppe per la disponibilità.
Buona lettura!
Un abbraccio
Elena