Da millenni gli esseri umani si affannano per raggiungere la perfezione attraverso innumerevoli forme creative, nel tentativo assiduo di imbrigliare la forza di un’emozione.
Alcuni artisti sono quasi riusciti a raggiungere questo obbiettivo, catturando istanti di pura bellezza che, pur appartenendo ad arti e ad epoche differenti, osservandoli uno accanto all’altro, riescono a parlare all’unisono, sprigionando un unico melodioso suono in grado di suscitare le medesime sensazioni.
Allora ecco che le pennellate sulla tela si fondono con l’inchiostro su un foglio bianco, ecco che il profumo della carta si unisce a quello forte e pregnante della tempera ad olio, ecco che le parole assumono i colori del dipinto e le due opere diventano un tutt’uno.
Non è facile che questo avvenga, ma quando capita è qualcosa di unico, speciale e quasi magico.
Anni fa, mi trovavo seduta su una panchina all’interno di un museo di Berlino, osservando una tela dalla forza emotiva impressionante. Tale era l’energia malinconica e dolorosa che riusciva a sprigionare da farmi scendere ben più di una lacrima, quel dipinto era Il monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich.
Mai avrei creduto di poter rivivere quelle sensazioni così brucianti e intense, fino a che mi sono imbattuta in un romanzo, che già dalle prime pagine ha risvegliato quella sensazione di impotenza dinnanzi alla forza delle emozioni, ha risvegliato quella malinconia dolce e dolorosa che arriva dritta allo stomaco.
Sto parlando di Il senso della colpa di Daniel Di Benedetto.
Questa volta l’incantesimo è riuscito alla perfezione e se non vi dispiace, vorrei essere per voi la voce narrante che vi porterà a scoprire tutti i tasselli che uniscono queste due opere rendendole così simili e uniche nel contempo.
Il monaco in riva al mare fu iniziato da Friedrich, nel 1808, per poi essere portato a compimento solo due anni dopo nel 1810, dopo un lungo processo fatto di ripensamenti, ritocchi e modifiche.
L’artista aveva l’abitudine di progettare i suoi lavori con numerosi schizzi realizzati “en plein air”, all’aria aperta, osservando minuziosamente la realtà per poi estrapolarne, una volta immerso nel silenzio del suo studio, gli elementi più suggestivi e più utili al fine di descrivere l’emozione che la tela definitiva doveva trasmettere.
Di Benedetto riprende un racconto scritto anni prima e lo riporta alla luce dopo un lungo processo di modifiche, esattamente come avvenuto per il dipinto.
Con la stessa tecnica del pittore: sedendosi di fronte alla realtà, all’aperto, studiandone i dettagli, carpendone le sfumature e raccogliendole in appunti che poi, nel silenzio della sua stanza, seleziona al fine di descrivere quelle emozioni così dure da imbrigliare e raccontare, facendo nascere Il senso della colpa
Se ci soffermiamo ad osservare il dipinto il senso di smarrimento è lapalissiano: Friedrich non guida lo sguardo dell’osservatore verso un particolare ma, anzi, lo lascia libero di perdersi davanti all’immensità dello sfondo.
Il fruitore ha l’occasione di scegliere il punto di vista da cui osservare e, di conseguenza, cambiare di volta in volta l’elemento su cui soffermare l’attenzione, che sia esso il mare, la riva o il cielo.
La percezione è quella di vedere la realtà con occhi ogni volta diversi e di osservare situazioni differenti, che però volgono tutte a trasmettere la stessa sensazione di vuoto e inquietudine.
L’unica figura presente sulla desolazione malinconica del paesaggio è quella del monaco, che volta le spalle all’osservatore, quasi estraniato e soffocato dalla forza e dal senso di oppressione del contesto che lo circonda.
Quel monaco è un tramite, è lui come potrebbe essere chiunque di noi, a questo punto liberi di sentirci piccoli, inopportuni e impotenti di fronte all’ignoto e alla potenza della natura.
Così Di Benedetto, nel suo romanzo, ci offre vari punti di vista, dando voce a diversi personaggi e permettendoci di vedere la medesima situazione attraverso gli occhi di più personaggi che, pur vivendo emozioni e sensazioni differenti, convergono tutti verso l’incapacità di sopportare il senso di inettitudine e la paura che si prova dinnanzi all’ignoto.
Il lettore diviene “il Monaco”, non è esterno alla storia, anzi ne è il protagonista, osservando l’infinito e affrontando il dolore, vestendo man mano i panni del maresciallo Giuseppe Occhipinti o di tutti i personaggi che ruotano attorno alle vicende e all’immenso senso di vuoto lasciato da Anna e dal suo sorriso, bello come quello della natura.
Friedrich introduce con Il monaco in riva al mare l’idea di infinito silenzioso, ritraendolo attraverso l’immaginazione creativa che, se da un lato percepisce la realtà per come effettivamente appare, dall’altro la crea costringendoci a chiudere “l’occhio fisico” per permetterci di osservare con “l’occhio dello spirito”. Allo stesso modo anche Di Benedetto, con Il senso della colpa ci costringe ad andare oltre l’apparenza e la ragione sfondando le porte dei sentimenti e dell’istinto.
Spiegando la genesi del quadro Friedrich disse: “ l’unica vera sorgente dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro” .
Proprio al cuore il pittore affida il compito di dipingere la sua tela e, nello stesso modo,
Di Benedetto lascia ad esso l’incarico di guidare la sua penna.
L’osservatore e il lettore non possono non percepire che queste opere sono entrambe create attraverso lo sguardo di un animo gentile, attraverso la mano di due artisti dotati non solo di talento ma anche di profonda sensibilità e umanità.
In riferimento alla tela di Fredrich, il drammaturgo Heinrich Von Kleist affermò : “…tutto ciò che avrei dovuto trovare nel quadro, lo trovai invece tra me e il quadro…”, intendendo che tale è la forza del soggetto rappresentato da necessitare un impegno da parte del fruitore, che deve mettersi in gioco, disposto a vivere realmente e ad analizzare, le emozioni scaturite dal quadro e quindi se stesso.
Probabilmente questa stessa osservazione, Heinrich Von Kleist la rifarebbe oggi, ma non osservando un quadro, bensì leggendo il romanzo di Daniel Di Benedetto.